di Roberto Luciani
La ricerca artistica di Romina Aymino (Roma, 1986) occupa una cornice concettuale complessa che si avvicina al neo-surrealismo, fondando tuttavia le radici nelle tecniche tradizionali, ereditate in particolare dai maestri rinascimentali.

Quando la pittrice lavora sulla figura umana manifesta non soltanto l’umanità ma anche l’anima del soggetto rappresentato; nella sua carriera non si è infatti mai allontanata dal rapporto con la figura, tuttavia la sua pennellata se pur limpida e fresca denuncia la condizione umana degli uomini contemporanei che rappresenta come “cavatappi”, cioè piccoli uomini stilizzati di acciaio che riescono con la forza delle braccia ad estrarre tappi che suggellano qualcosa.
I cavatappi sono quindi gli uomini di oggi nella sua accezione negativa, rigidi, assuefatti, freddi, persone squallide che quando desiderano qualcosa lo fanno con egoismo senza pensare agli altri.
Il cavatappi è la versione machiavellica che l’uomo porta dentro, è la parte oscura e fredda, è l’uomo che perde l’anima per omologarsi ad un ideale comune che annienta, è la perdita dell’identità.

I dipinti di Aymino sono “specchi” dove le persone possono riflettersi senza veli mettendo a nudo la propria anima.
L’aurora
Romina ha iniziato a disegnare con passione quando era molto piccola, forse 3-4 anni. La madre mi ha riferito che stava ore sui fogli a disegnare facce senza naso (che trovava profondamente antiestetiche), busti a forma di cuore e manine come palline perché le dita erano troppo difficili da realizzare.
Verso la prima elementare è passata a disegnare cartoni animati; ricopiava le loro immagini da album di figurine e giornaletti, riempiendo quaderni interi di disegni colorati con pastelli o pennarelli, che in casa conserva ancora in parte.
Ogni volta ne finiva uno lo mostravo ai genitori soddisfatta come se avesse appena completato la volta della cappella Sistina e loro la adulavano anche perché in famiglia nessuno sapeva tenere una matita in mano.
Verso la seconda elementare si impegnava a scrivere dei messaggi segreti trasformando dei concetti in immagini. Forse quello è stato il primo momento in cui ha cominciato a criptare i suoi disegni vedendo in loro più di quello che appariva di primo acchito.
Fino al primo anno di università ha sempre solo usato la tecnica dei pastelli, la pittura non la sentiva sua. Ad un certo punto però, ha sentito il bisogno di utilizzare i pennelli, ha comprato la sua prima scatola di colori ad olio e senza nessuna preparazione ha incominciato ad utilizzarli. All’inizio riproduceva quadri famosi perché non aveva nessuna ispirazione per fare qualcosa di suo, ma dopo aver letto la biografia di Frida Kahlo è come se si fosse aperta una porta che dava libero accesso alla realizzazione di tutte le sue idee. Il surrealismo gli aveva dato la chiave di lettura tanto agognata.
Con il primo piccolo quadro Le maledicenze è riuscita a creare qualcosa che fosse interamente suo e da lì in poi non si è più fermata.
Ogni quadro che faceva era come una pagina di un diario segreto. Non gli è mai importato di dipingere qualcosa che fosse bello e apprezzabile da tutti, gli è sempre solo interessato dipingere qualcosa che fosse “vero” per lei a prescindere da tutti.

Questo contatto iniziale con le arti figurative si è rilevato propedeutico per l’assunzione di consapevolezza delle proprie capacità, ma soprattutto per la scoperta dello strumento idoneo per la condivisione del suo mondo. Da allora ha sempre cercato di imprimere su tela le sue emozioni, sforzandosi di trovare le giuste tonalità cromatiche, le giuste forme e la giusta armonia.
La pittrice romana dipinge la “sua” verità, la sua prospettiva delle emozioni e una volta finita l’opera riesce a vedere quello che prova con chiarezza, come se ne prendesse tangibilmente atto. La pittura è la sua personale dimostrazione di quello che gli appartiene nel profondo senza mirare alla comprensione collettiva. Ognuno se vuole può specchiarsi in quello che realizza e vedere sé stesso, non l’artista.
Le opere
Le opere del ciclo Cavatappi posseggono temi ricorrenti che indagano l’umana condizione dell’uomo moderno, in realtà siamo noi quando perdiamo la nostra anima per omologarci ad un ideale comune che ci annienta, si veda ad esempio La privazione dell’io (olio su tavola, cm 50×50, 2019), che rappresenta la crisi identitaria dell’uomo di oggi, con il cavatappi che sovrasta la scena prepotente e arrogante, simbolo di una domanda esistenziale: siamo spettatori passivi o artefici della realtà che ci circonda?
Il gentiluomo (penna su carta, cm 28×24, 2018) raffigura il conflitto odierno fra l’identità nascosta e quella mostrata. Un conflitto che nella quotidianità diventa dinamico, in cui l’uomo è preoccupato dell’apparenza, del riflesso che le aspettative della comunità hanno sulle sue scelte e finisce per perdere il senso della propria esistenza.

Ne La trasmutazione (olio su tela, cm 50×50, 2010) il personaggio antropomorfo si ritrova ad abbandonare i vecchi vestiti che coprivano la sua vera identità per ritrovarsi nella sua forma originaria.

Il sognatore e concetti astratti di una realtà apparente (olio su tavola, cm 50×50, 2019) rappresenta la condizione dell’uomo odierno. La scena si svolge nell’angolo di una stanza, simbolo della chiusura umana dentro l’involucro dell’apparenza, che mostra le prime lesioni di una condizione che ha perso di vista la dimensione umana.

Anche in altre opere compare il cavatappi, tra queste le più note sono Rottamami, (penna su carta, cm 28×24, 2018), Comunità (penna su carta, cm 28×24, 2018), Il reporter (penna su carta, cm 28×24, 2018), Eva (olio su tela, cm 70×60, 2020), Genesi? (olio su tela, cm 60×50, 2020) Chi sei? (olio su tela, cm 60×70, 2020).
La produzione recente
Per Aymino il compito primario rimane tuttavia la dimensione poetica delle cose, per questo recentemente ha inaugurato una nuova stagione che gli ha consentito di esprimersi con nuove espressioni anche con l’eliminazione dei cavatappi. In realtà, già nel dipinto La creazione di un’idea (olio su tavola, cm 50×50, 2019) i cavatappi sono meno “ingombranti” dando spazio alla figura femminile in primo piano.

Questa trasformazione evidenzia una pittrice a tutto tondo, capace di rapportarsi con pennelli e tele come se stesse descrivendo la storia semplice di essere artista e mamma, producendo dipinti neo-surrealisti capaci di trasmettere magia. Romina nella produzione recente si allontana quindi dal rapporto con la figura del cavatappi esternando una pittura sensibile, sempre più attenta a cogliere nelle cose quella dimensione che non è di semplice descrizione ma ne evidenzia la trasposizione purificata e poetica. Per questo si avvale del colore che vive della luce come modo per esprimere la forma che si sostanzia del colore.
Si veda L’orizzonte in un abbraccio (olio su tavola, cm 50×50, 2018), La naturale tenerezza di un abbraccio (olio su tavola, cm 50×50, 2016) e i più recenti Distanze e Ritratto di Angelica e Anastasia.

Nell’opera Distanze (olio su tela, cm 50×60, 2020) è presente un paesaggio urbano dall’atmosfera surreale con la pavimentazione multicolorata e il cielo coperto da ombrelli variopinti.
Nel Ritratto di Angelica e Anastasia (olio su tela, cm 50×50, 2021) troviamo le giovani gemelle cantanti liriche davanti agli spartiti dell’opera Tosca di Giacomo Puccini, mentre a sinistra è collocata una chiave di violino che entrerà nella serratura, cioè il cuore delle ragazze. Il dipinto è serrato da tralci verdi con boccioli di rose già presenti nella decorazione dello spartito originale, mentre in basso si trova la costellazione del Sagittario.
Romina Aymino ha esposto in diverse mostre collettive e personali, l’ultima con vernissage il 9 maggio 2020, virtuale causa covid, al Museo Archeologico di Anzio, curata da Roberto Luciani.
Recensioni si trovano nella monografia di Lorenzo Semplici, Romina Aymino, trent’anni in punta di colore (UniversItalia, Roma 2016) e nelle riviste 2Learnig Advanced (2LA) e Portfolio-Handbook Costa Smeralda. L’archivio e l’esposizione delle sue opere è tenuta dalla Galleria internazionale Arsnova Gallery.