di Roberto Luciani

Già nel secondo millennio a.C. nel tempio di Abou-Simbel nella Nubia, Sethi II, faraone della XIX Dinastia, fece porre a sostegno di un braccio di una colossale statua di Ramses II alcune assi di pietra ed un’iscrizione attestante il suo intervento. Siamo di fronte ad un modernissimo esempio di restauro, nel quale si evidenzia non solo la coscienza della necessità dell’intervento, ma anche la precisa volontà di documentarlo. Non v’è dubbio però, che questo ed altri rari interventi, costituiscono per l’antichità eccezioni isolate.
Nel mondo romano, ad esempio, come già in quello greco, il restauro veniva normalmente inteso ed attuato come profonda innovazione del monumento, se non addirittura come rifacimento radicale: più che la sacralità del monumento veniva considerata, infatti, la sacralità del luogo, per cui l’originario era, nella massima parte dei casi, demolito e ricostruito in forme più grandiose e complesse e nello stile del momento. La Curia Senatus, tradizionalmente eretta da Tullio Ostilio, venne rifatta da Silla, da Cesare e da Diocleziano; il Tempio di Castore e Polluce, eretto nel 484 a.C., venne ricostruito almeno tre volte, l’ultima sotto Augusto; il Tempio di Giove Capitolino venne anch’esso più volte riedificato.
Nell’alto Medioevo, l’affermarsi del potere temporale della Chiesa determinò l’interruzione della manutenzione dei monumenti pagani, che anzi divennero vere e proprie cave di marmo, e solo nei casi più fortunati essi furono riadattati come edifici di culto o come fortezze.

A Roma la chiesa di S. Maria Nova viene costruita nel X secolo con le pietre prelevate nel prospiciente Foro; in Santa Maria in Trastevere, Santa Maria in Aracoeli, San Crisogono e nella maggior parte delle chiese romane dell’epoca, s’impiegano colonne tratte da edifici classici; il duomo di Sessa Aurunca viene realizzato riutilizzando materiali tratti dai Templi di Ercole e di Mercurio.
La più antica legislazione
Risale al 1462 la più antica legislazione sulla conservazione dei monumenti, la bolla Cum albam nostram Urbem di Pio II, il coltissimo umanista E. S. Piccolomini, con la quale comincia a farsi strada l’idea della tutela dei monumenti delle epoche precedenti, anche se, come sempre nel periodo umanistico, limitatamente alle opere dell’antichità classica: il Piccolomini stesso, infatti, non esitò a far abbattere dal Rossellino numerosi monumenti, tra cui la chiesa romanica di S. Maria, nella sua Pienza, per la costruzione della famosa piazza e del duomo.
Il nuovo atteggiamento del Rinascimento nei confronti dell’antichità determinò la realizzazione di attente indagini su moltissimi monumenti classici, delle quali ci restano anche numerosi disegni, schizzi e rilievi.
Poggio Bracciolini e Flavio Biondo

Fondatori della nuova archeologia furono due umanisti, Poggio Bracciolini e Flavio Biondo: il primo scrisse nel 1431 De variegate fortune, che, nell’introduzione al primo libro, contiene una descrizione delle rovine di Roma; il secondo scrisse nel 1445 Roma instaurata.
Tra i disegni di eccezionale valore sono la raccolta degli schizzi nota come Codex Escurialensis, eseguiti verso il 1492 da Francesco de Hollanda, discepolo del Ghirlandaio, che rappresentano rovine e monumenti archeologici visti da un pittore e il Codex Barberini, raccolta di schizzi appartenente a Giuliano da Sangallo, cominciata nel 1460, ed eseguiti con intenzioni architettoniche.

A questo rinnovato interesse dei cultori, non corrispose tuttavia un mutamento nell’atteggiamento generale nei confronti dei monumenti antichi, che spesso vennero spogliati completamente dei loro marmi per la costruzione di palazzi e fabbriche imponenti.
Nel rinascimento, pur quando questo limite non viene raggiunto, per ragioni di economia si trasformano stilisticamente edifici medievali, come nel caso della chiesa gotica duecentesca di S. Francesco di Rimini trasformata da Leon Battista Alberti (1404/1472) in Tempio Malatestiano. In questo periodo non si rispettano neppure i monumenti classici (che pure risultavano continua fonte di ispirazione progettuale): il Tepidarium delle Terme di Diocleziano a Roma viene trasformato da Michelangelo (1475/1564) nella chiesa di S. Maria degli Angeli (1563/66); sui resti del Teatro di Marcello si costruisce il Palazzo Savelli; il Tempio di Minerva di Assisi viene trasformato nel 1539, occupandone e trasformandone la cella.
Nel periodo Barocco, Borromini (1599/1667) trasforma la chiesa di S. Giovanni in Laterano (1650); Bernini (1598/1680) aggiunge due campaniletti al Pantheon; S. Lorenzo in Miranda viene ricostruita nel 1602 occupando la cella e la facciata del Tempio di Antonino e Faustina; a Milano Aurelio Trezzi (n. 1625) crea una facciata barocca a S. Babila (1604/10).


In questo periodo, nonostante lo spirito d’indipendenza artistica, si osserva tuttavia qualche esempio di rispetto. Si consolidano le esili colonne originarie della chiesa di S. Marco a Roma che vennero accoppiate a pilastri (1744); così il quattrocentesco portico dei SS. Apostoli a Roma viene consolidato e compiuto per sostenere i muri aggiunti quando si chiuse e suddivise la loggia superiore (1702).
Tra gli esempi di integrazione di monumenti le Procuratie Nuove, a Venezia, iniziate dallo Scamozzi nel 1584, vengono compiute dal Longhena nel 1640; mentre a Vicenza il rivestimento del palazzo della Ragione, progettato e iniziato da Palladio, viene compiuto da G. Grazioli nel 1614.
Il XVIII secolo
Finalmente nel Settecento tutta una serie di circostanze fortunate (tra cui gli scavi di Pompei ed Ercolano) ed il rinnovato fervore di studi sulle antichità egiziane, romane e greche, resero possibili gli studi del Winckelmann (che storicizzò l’arte antica, ponendo le basi della nuova scienza archeologica), del teorico dell’architettura Francesco Milizia, dell’architetto neoclassico Giacomo Quarenghi (il quale realizzò il sobrio restauro di S. Scolastica a Subiaco), di Gian Battista Piranesi, grazie ai quali una particolare attenzione cominciò ad essere dedicata ai monumenti classici e alla loro conservazione, determinando il sorgere di un moderno concetto di restauro. Il suo atto di nascita si può far risalire al decreto del 1794, con il quale la Convenzione Nazionale francese proclamava il principio della conservazione dei monumenti.

Le teorie di Viollet-le-Duc (1814/1879) in Francia, ben presto esportate in tutti i restauri europei del XIX secolo, concepivano un approccio “archeologico” e un revival nazionalistico medievale.

L’unicità di ogni opera del passato e la distanza con la quale questa è apprezzata nel presente è un concetto espresso per la prima volta da Ruskin (1819/1900). Per lo storico inglese, la ricostruzione totale o parziale proposta dal revivalismo e chiamata restauro, è la peggior maniera di distruggere un’opera d’arte: “non dobbiamo infatti illuderci di poter mantenere post mortem una forma di espressione, perché non si tratterebbe altro che di una falsificazione”.
In Italia la legislazione sul restauro compie progressi significativi durante il pontificato di Pio VII (1800/1823) con l’editto del 2 ottobre 1802 del cardinale Doria Pamphilj (che il pontefice volle far accompagnare da un suo chirografo), che fu il primo strumento operativo completo in materia di Antichità e Belle Arti. Aggiornato da un editto del cardinale Pacca del 7 aprile del 1820 e dal regolamento del 6 agosto 1821, costituì il modello per altre legislazioni europee (a cominciare da quella adattata dal Regno di Napoli il 13 maggio 1822), dando inizio al predominio italiano nel campo del restauro.

Fu proprio Pio VII ad iniziare i primi fondamentali restauri ai monumenti archeologici di Roma, tra i quali spiccano quello del Colosseo, dell’Arco di Costantino e dell’Arco di Tito.
Sinergia tra architetti e archeologi
In questo periodo, il fecondo rapporto tra alcuni architetti neoclassici del valore del Valadier, dello Stern, del Camuccini, del Canina e del Camporesi da una parte, e di archeologi dall’altra, permise il nascere del “restauro archeologico”, caratterizzato dalla ricomposizione del monumento con i suoi pezzi originari e dalla precisa distinzione tra le integrazioni e le parti originali.
Le figure di “teorici”, come Camillo Boito, spostarono l’interesse per il “monumento come documento d’arte e di storia”, carattere principale della concezione del “restauro scientifico”. Per l’azione tenace di Gustavo Giovannoni questo concetto si protrarrà in Italia fino a quasi la metà del XX secolo, quando la coerenza dei principii fu minata dagli eventi bellici che ne evidenziarono la non generale applicazione.
Senza rinunciare ai corretti postulati del “restauro scientifico”, un nuovo metodo filologico e “critico”, rilevato da Cesare Brandi, guida i metodi di intervento di restauro che dovranno tener presente l’intera realtà, artistica oltre che documentaria, dei monumenti.
Nel 1943 Agnoldomenico Pica nel suo scritto Attualità del Restauro (in Costruzioni- Casabella, XVI, 182) afferma che il metodo filologico è solo la teoria dei “danni minori” e dietro l’apparente neutralità del più semplice degli interventi si nasconde la necessità di risolvere un nodo figurativo.
Il passo successivo lo compie nel 1944 Roberto Pane il quale ne Il restauro dei monumenti, afferma che “il restauro è esso stesso opera d’arte”.

Restauro come atto critico e restauro come “atto creativo”, sono i termini di una contemporanea concezione di Renato Bonelli e Giovanni Carbonara, il quale, nel 1975, ha pubblicato un dotto volume dal titolo La reintegrazione dell’immagine.

In conclusione, se il restauro è definito “processo critico e atto creativo”, l’uno come intrinseca premessa dell’altro, da poco tempo questo fondamento teoretico è stato assunto nella concezione artistica. I termini nei quali il quesito è stato posto e risolto è abbastanza semplice: se la pittura, la scultura, l’architettura sono arte e quindi l’opera pittorica, scultorea, architettonica sono opere d’arte, l’indagine prioritaria del restauratore sarà quella volta a riscontrare nelle opere la presenza della piena qualità artistica.

La sua opera inizia quindi con un’azione critica che si manifesta in un giudizio basato sul criterio di assegnare al valore artistico la prevalenza assoluta in confronto ad altri aspetti, i quali restano secondari e subordinati, per poi diventare un processo creativo.