Lo spazio infinito dell’oro e il “barocco” della sofferenza ospiti della Galleria Borghese
E’ Lucio Fontana il primo artista italiano esposto alla Galleria Borghese (fino al 28 luglio), con il suo spazio, le sue sculture, con il tema della Crocifissione e con i dipinti a base d’oro; opere realizzate, principalmente, nel decennio tra il 1958 e il 1968. I cinquanta capolavori di Fontana riescono a dialogare con i capolavori della Galleria: è lo spazio barocco che si contrappone e si fonde con lo spazio creato dal Fontana.
La raccolta di “terre-cotte”, le sue ceramiche dipinte, scelte nel tema predominante delle Crocefissioni, sono composizioni tutte fortemente scosse da un fremito scomposto di origine ancora (sofferente – nel rispetto del tema) barocca.
Un altro tema delle opere, esposte, del Fontana è l’oro, non colore ma astrazione, non materia ma essenza dell’infinito. Non ornamento, ma esso stesso luce, anzi sintesi tra la luce e lo spazio. Uno spazio non descritto, ma creato con i suoi celebri Tagli e Buchi.
Lucio Fontana (Rosario, Argentina, 1899 – Varese, 1968), è il padre dello Spazialismo. La curatrice Anna Coliva, è riuscita a riunire una vasta serie di lavori, in oro, provenienti da collezioni pubbliche e private.
Leggiamo alcune frasi di Gillo Dorfles per uno sguardo sull’arte visiva contemporanea, attraverso, una lettura critica dei buchi e dei tagli di Lucio Fontana.
(…) Vorrei ora soffermarmi almeno su un istante su quella che rimane l’epoca produttiva più felice di Fontana e che si può senz’altro definire come l’epoca dei buchi.
I “buchi” sono al tempo stesso dei segni capaci di fissare una traccia compositiva, un disegno bidimensionale, e di costituire una strutturazione plastica e volumetrica. La presenza d’una incisione e d’una “assenza” della materia, fa sì che la spazialità bidimensionale della tela sia interrotta e lasci affiorare il vuoto che sta dietro, proiettandosi verso il nulla che sta dinnanzi. Oltre a ciò i fori, praticati con quella “velocità d’impulso” che li caratterizza, hanno la immediatezza e la irrevocabilità d’un segno assoluto e conferiscono alla tela – spesso monocroma, addirittura bianca -, un rilievo non altrimenti raggiungibile. Da tutto ciò è facile comprendere come l’uso dei buchi abbia potuto essere esteso anche a vaste superfici, a pareti, a soffitti, diventando in quel caso piuttosto un elemento di decorazione plastico-luminosa che un vero e proprio “dipinto”. Ma Fontana – non a torto – ha sempre insistito sull’importanza di non considerare più il “quadro” e la “statua” come le due mete essenziali dell’arte visuale odierna e futura: per sopravvivere la pittura e la scultura devono non soltanto integrarsi all’architettura, ma devono acquistare una “statura” che non sia più soltanto quella del quadro da cavalletto e del soprammobile. (…)
Ecco, dopo i graffiti astratti prebellici (1934-35) (tra le prime opere non figurative della scultura italiana), e le statue in terracotta policroma e dorata; e dopo il barocchissimo bozzetto per le porte del Duomo di Milano (mai eseguito) (e non si dimentichi a questo proposito la componente barocca presente in molte sue ceramiche, in molte delle sue sculture) ha iniziato il grande periodo post-bellico, subito dopo la formulazione – avvenuta ancora in Argentina – del “Manifesto Blanco” (1946); il manifesto che condensava alcuni dei basilari principi del suo credo artistico.
Poi, mentre Fontana inventava (attorno al ’48) i “buchi” e, un paio d’anni dopo, i “tagli”, la sua attività s’infittiva; il quadro monocromo diventava una tappa obbligatoria del suo operare, alternato al quadro arricchito da inserzioni di pietruzze e di cristalli, alternati ai fori ai tagli. Seguiva una breve stagione di collage astratti ma vagamente paesaggistici, dove due o tre stratificazioni di tele leggermente tonali creavano una sorta di atmosfericità, insolita nei suoi dipinti di solito decisamente timbrici. (…)
Roma città d’arte
Roma città d’arte, Roma città Eterna. Oltre all’importantissima mostra della Galleria Borghese, il Palazzo delle Esposizioni racconta l’esposizioni d’arte a Roma dagli anni cinquanta al Terzo Millennio.
Fino al 28 luglio sarà esposta “Mostre in mostra”, al Palazzo delle Esposizioni, un progetto espositivo a cura di Daniela Lancioni, promosso da Roma Capitale Assessorato alla Crescita culturale e organizzato dall’Azienda Speciale Palaexpo.
Si racconterà l’arte nella città negli anni passati, che sarà ripetuto ogni anno: In questa prima edizione saranno riproposte sei mostre di rilievo, che si sono tenute a Roma nei singoli decenni tra gli anni Cinquanta e gli anni Duemila.
Titina Maselli, Galleria La Tartaruga 1955; Giulio Paolini, Galleria La Salita 1964; Fabro. Concetto spaziale d’après Watteau, 1967-71 / Corona di piombo, 1968-71 / L’Italia d’oro / Alluminio e seta naturale, 1971, rassegna Informazioni sulla presenza italiana a cura di Achille Bonito Oliva, Incontri Internazionali d’Arte 1971; Carlo Maria Mariani. La costellazione del Leone, Galleria Gian Enzo Sperone 1981; Jan Vercruysse. Tombeaux (Stanza), Galleria Pieroni 1990; Myriam Laplante. Elisir, a cura di Lorenzo Benedetti e di Teresa Macrì, Fondazione Volume! e The Gallery Apart 2004.
Tra le oltre sessanta opere in esposizione, si ricordano le opere di Titina Maselli (Roma, 1924-2005), l’artista affascinata dalla superficie urbana e votata a un astrattismo organico, concreto, dove si intersecano suggestioni futuriste e pop.
“Le oltre sessanta opere in esposizione, tra dipinti, sculture e installazioni, offriranno ai visitatori la possibilità di riscoprire, in una sorta di passeggiata nel tempo, i paesaggi espositivi di una città nella quale l’arte contemporanea incide da molti decenni in maniera significativa”.
Pronta (Roma) a continuare ad esserlo anche nel prossimo futuro.