di Roberto Luciani
La struttura originaria della Basilica di San Giovanni in Laterano è stata delineata nella sua estensione e particolarità dal Krautheimer nel Corpus Basilicarum Christianarum Romae. Secondo lo storico dell’arte tedesco, fin dalla sua consacrazione, che si colloca prima del 318, “il catino dell’abside era splendente d’oro, nella navata centrale e nel presbiterio vi erano lampadari d’oro e d’argento e sette tavole (mensae), una delle quali fungeva probabilmente da altare” (R. Krautheimer, Roma, Profilo di una città, 312-1308, Edizioni dell’elefante, Roma 1981, p. 33).
L’imperatore Costantino donò alla chiesa un superbo corredo di suppellettili, tra le quali un fastigium d’argento per l’altare maggiore, la cui fronte era decorata con l’immagine di Cristo sedente tra gli apostoli recanti ognuno la propria corona. Nella parte postica, rivolta verso l’abside, era nuovamente effigiato il Cristo in trono tra quattro angeli che sostenevano una lancia. Il grande fastigium argenteum era una sorta di baldacchino del peso di oltre 2000 libbre d’argento in lamina, cioè circa 6,5 quintali. L’ipotesi ricostruttiva più attendibile è quella che lo mostra come una sorta di grandioso timpano a due facce poste verso l’altare e decorato da tredici statue dalla parte anteriore (Cristo tra gli apostoli) e da cinque nella posteriore (Cristo sedente tra quattro angeli). Le sculture, pure in argento, dovevano trovarsi abbastanza in alto per non coprire l’altare e le celebrazioni che vi si svolgevano. L’enorme fastigium enfatizzava certamente la zona presbiteriale e l’altare conferendo una forte luminosità, ulteriormente accentuata dalla doratura dell’abside che gli faceva da sfondo.

In tutta la chiesa costantiniana erano inoltre presenti numerosi candelieri, lumi e lampadari, per lo più d’oro, di bronzo dorato e d’argento, d’avanti all’altare pendeva il farum cantharum d’oro con 80 lumi in forma di delfini. L’intensificazione della luminosità e la concentrazione della decorazione più preziosa in questo settore aveva lo scopo di enfatizzare la zona sacrale e in particolare l’altare.

L’altare papale
Dalla fondazione della Basilica in epoca costantiniana l’altare maggiore, ovvero l’altare papale, così chiamato perché riservato tradizionalmente alle celebrazioni papali, risulta posizionato sotto l’arco trionfale e contenuto da un ciborio. Le fonti ci tramandano l’enorme venerazione di cui, sin dall’origine, l’altare primitivo ha goduto, trattandosi della reliquia della tavola di legno, e cioè i resti della mensa su cui i primi pontefici e martiri della cristianità, celebrarono le funzioni liturgiche.

L’attuale altare in marmo, che conserva al suo interno frammenti dell’originaria tavola lignea, è tuttavia l’ultimo di una serie che nel corso dei secoli si sono alternati sul luogo della primitiva collocazione, distrutti o danneggiati dalle devastazioni subite dalla chiesa per mezzo degli uomini o del tempo.
In riferimento all’ altare di legno utilizzato fino dal tempo degli Apostoli e per tutto il periodo delle persecuzioni, Giovanni Giustino Ciampini (1633-1698) nella sua opera intorno ai sacri edifici eretti da Costantino afferma che dopo aver anche consultato manoscritti inediti di Onofrio Panvinio (1530-1568) sia straordinario che questo altare ligneo sia rimasto illeso ai molti incendi divampati nella basilica e alle “tante desolazioni” subite (G. G. Ciampini, De sacris aedifìciis, Romae, 1693, cap. II, p. 15, col. 1).
Terremoti, incendi e restauri
Nel VII secolo la Basilica pur conservando il nome iniziale di Costantiniana, acquisisce in parallelo la denominazione di Ecclesia Salvatoris.
Questa ebbe un primo restauro con Adriano I (772-795), che accolse in Laterano Carlomagno, dopo di lui Leone III (795-816) ristruttura l’area presbiteriale, erige il ciborio con quattro colonne di argento massiccio e dona suppellettile e tessuti preziosi. Sergio II (844-847) procedette ad una nuova sistemazione del presbiterio, con la realizzazione di una confessio sotto l’altare.
Durante il pontificato di Stefano VI (896-897) la chiesa, già in cattive condizioni, venne quasi completamente distrutta dal terribile terremoto dell’896: l’altare crollò con l’intera navata centrale, “ab altare usque ad portas”.
La ricostruzione fu sufficientemente sollecita poiché Sergio III (904-911) poté “reaedificavit” la basilica crollata, facendo realizzare interamente in argento un nuovo altare, circondato nei quattro angoli da altrettante colonne di porfido (diaspro) che sorreggevano un ciborio: “inter quatuor columnas de rubeo porphyrio suo sub quodam pulcro ciborio” (Ph. Laurer, Le Palais de Latran, Paris 1911, p. 223). Davanti si sviluppava il presbiterio, perimetrato da una cinta marmorea, che conteneva anche l’altare dedicato alla Maddalena sovrastato da ciborio. Tutta l’operazione era volta a ripristinare, per quanto possibile, le forme dell’edificio originario, con il prezioso arredo liturgico e il tesoro, che possedevano in sé un valore simbolico altissimo. La basilica tornò al primitivo splendore riacquistando la coscienza della sua primarietà tra le chiese di tutto il mondo cattolico.
Nel giugno del 1308 si sviluppò un vasto incendio e una notevole superficie della chiesa venne distrutta, così come i palazzi papali, le case dei canonici e il circondario, in particolare l’altare in argento e le recinzioni presbiteriali di bronzo subirono la liquefazione.
L’incendio colpì profondamente la fantasia dei contemporanei, sia per l’importanza religiosa della chiesa lateranense e delle reliquie in essa custodite, sia per il fatto che si sviluppò nei primi anni dell’esilio avignonese dei papi, tale accadimento fu considerato come un segno dell’ira divina nei confronti della città e dei suoi abitanti.
Il Tabernacolo
La necessaria opera di restauro e rifacimento fu commissionata da Clemente V (1305-1314) già trasferito ad Avignone da dove impartiva istruzioni, ma si protrasse fino al 1346. L’altare d’argento fuso venne sostituito con un nuovo altare dalla struttura in marmo, realizzato dal marmoraro Cinzio de Salvati, completato da Giovanni dell’Aventino e da Giovanni di Cosma con il figlio Lucantonio, esaltato dal tabernacolo ogivale, commissionato nel 1367 a Giovanni di Stefano da Urbano V, con il concorso finanziario di Carlo V di Francia e di nobili e prelati romani. L’opera aveva anche il compito di custodire e proteggere le reliquie della mensa lignea del primitivo altare e delle teste dei principi degli apostoli.
Lo straordinario complesso scultoreo altare-tabernacolo si definì quindi nel 1367 su commissione del papa francese, nato a Chateau de Grizac, Urbano V (1362-1370). L’opera si inquadra nella critica situazione politica del tempo, presentandosi non solo come la prima grande opera scultorea realizzata nell’Urbe dopo Arnolfo di Cambio, ma anche come manifesto della rinnovata linea politica e spirituale del papato romano, che si pone nuovamente come preminente centro della cristianità. La struttura del ciborio fu completata da Gregorio XII (1406-1415), che tolse anche le quattro colonne di bronzo dorato posizionandole come sostegno della cappella del Ss.mo Sacramento dove tuttora si trovano, è a baldacchino a cuspide, retto da quattro colonne di granito orientale, decorato sui lati da una fascia centrale con affreschi del Quattrocento affiancati, agli angoli, da statue del Trecento e al centro delle cuspidi da quattro clipei a bassorilievo.

Seguendo la tradizione costantiniana, il tabernacolo nasce non solo per contenere la mensa delle celebrazioni, ma anche come vero e proprio reliquiario destinato ad esporre, nel piano superiore a giorno, le teste degli apostoli Pietro e Paolo solennemente rinvenute da Urbano V nel Sancta Sanctorum Lateranense, contenute da preziosi reliquiari di Giovanni di Bartolo poi distrutti e sostituiti con copie.
A sottolineare la forza taumaturgica che si voleva affidare a questo ciborio sono inoltre le varie altre reliquie che contiene, alcune riferibili a Cristo, altre ai Santi rappresentati nei dipinti quattrocenteschi (SS. Giovanni Battista ed Evangelista, San Pancrazio, San Lorenzo, Santa Maria Maddalena).
Un nuovo incendio si sviluppò nell’agosto del 1361 distruggendo tetto e cappelle della Basilica, le relative riparazioni procedettero lentamente per diversi anni, e sino al consistente rinnovo dell’architetto Francesco Borromini sotto Innocenzo X (1646-1650) non ci furono sostanziali modifiche nelle strutture della basilica.

L’attuale altare dell’architetto Martinucci
Nel 1851 Pio IX (1846-1878) affida all’architetto Filippo Martinucci (1783-1862) l’incarico di ampliare e restaurare il settore comprendente la cappella della confessione di fronte all’altare, l’altare stesso ed il ciborio di Giovanni di Stefano.
La posizione degli stemmi di Urbano V e Gregorio XII nel fastigio del ciborio e sui lati dell’altare risale a questo intervento. A Durante e a Pietro Ercole Visconti, commissario delle antichità romane, papa Mastai-Ferretti assegnò le opere preparatorie di scavo.
Il Martinucci eliminò le ridipinture che coprivano i marmi trecenteschi del ciborio e la grata dorata posta da Innocenzo X davanti all’altare e fece realizzare nuovi elementi ornamentali. L’ampliamento della confessione comportò la distruzione delle pitture settecentesche di Giovambattista Brughi, ma permise l’inserimento del sepolcro di Martino V, morto nel 1431, un tempo posto nella navata centrale davanti all’altare maggiore.
Nell’altare papale in marmo bianco decorato da quattro colonnine a mosaico cosmatesco il Martinucci conservò, all’interno di una pregevole cassa in legno visibile dal lato posteriore dell’altare, la reliquia dell’originaria tavola lignea, inserì lo stemma di Pio IX al centro del paliotto verso la navata tra quelli di Urbano V a sinistra e di Gregorio XI a destra, conservando, in uno dei lati minori, lo scudo del cardinale Guglielmo d’Agrifoglia e nell’altro quello seminato di gigli (antico blasone della casa reale di Francia). Dall’attiguo chiostro dei Vassalletto trasferì le due statue raffiguranti gli apostoli Pietro e Paolo che pose a destra e a sinistra del paliotto posteriore dell’altare.
Tra il 1876 e il 1886 si volle creare un’estesa area presbiteriale, distruggendo le strutture della vecchia abside medievale e riedificandone una nuova più distante dall’altare papale che fortunatamente non subì danni. Il prolungamento del presbiterio comportò il rifacimento del mosaico medievale di Niccolò IV, smontato e rimontato nella nuova posizione con pesantissime perdite.
foto: Stefano Porfiri