di ROBERTO LUCIANI
Classe 1997, Irene Carnevale è una scenografa diplomata, con diploma di I livello, all’Accademia di Belle Arti di Firenze con il massimo dei voti. Partirei dall’etimologia della sua qualifica, della sua materia, la scenografia, ovvero la narrazione di una scena, di un contesto, attraverso immagini e allestimenti. Ha sempre ritenuto che le immagini riuscissero ad arrivare, a comunicare, molto di più delle parole, e che fossero anche un potenziale strumento di denuncia, ben più efficace di qualunque altro.
Spinta dal desiderio di voler “impressionare” momenti, emozioni, frammenti di vita, terminato il suo percorso di triennale a Firenze, ha ripreso in mano la macchina fotografica, già compagna di avventure passate, iniziando a raccontare storie “in pellicola”. Le sperimentazioni personali sono state tante, dalla fotografia di scena in teatro, ai set di posa in costume. Ma, come accennato, ha sempre amato il modo in cui attraverso un obiettivo si possano raccontare infinite storie, ed è qui che scatta qualcosa, la quella voglia irrefrenabile di raccontare il vissuto altrui, anche quello più distante, ma soprattutto quello ricoperto dai peggiori cliché.
È così che nasce, grazie ad un approfondito corso frequentato presso l’associazione Officine Fotografiche di Roma, tenuto dai docenti Fabio Moscatelli e Stefano Mirabella, un suo personale diario che narra la quotidianità di alcuni quartieri periferici della capitale, di alcune città invisibili che vengono soffocate dai pregiudizi e dalla propaganda dei media. Diversi sono stati i quartieri con i quali si è interfacciata, da Corviale a Tor Pignattara, passando per il MAAM (Museo dell’altro e dell’altrove di Metropoliz) fino ad arrivare alle svettanti torri di Tor Bella Monaca, dove il tempo, per lei, si è fermato.
Tor Bella Monaca, anzi Tor più Bella
Il viaggio di “Tor più Bella”, è questo il nome che ha deciso di dare a questo progetto, è partito dall’appartamento di Maria Grazia, un’istituzione del quartiere, la quale da subito ha voluto sottolineare l’importanza del concetto di “appartenenza” a Tor Bella Monaca. Un concetto sacro, in grado di sconfiggere anche il peggiore dei pregiudizi. Maria Grazia è cresciuta in quel quartiere, fatto di storie difficili e di anime incredibili, dove ha conosciuto il suo unico e grande amore della vita, dove ha cresciuto i suoi splendidi quattro figli.
Un viaggio che è continuato, poi, per le strade e per le famose Torri, vestite di meravigliosi murales che raccontano, attraverso i loro colori sgargianti, la vita e le storie di chi vive la periferia più estrema. Per arrivare, infine, nello storico Luna Park di Via Quaglia, Adelandia, fondato da Roberto Dell’Acqua e dedicato a sua moglie Adele, che ad oggi lo gestisce dopo la morte che lo ha colpito due anni fa. Roberto, con il suo parco giochi, ha creato uno spaccato positivo del quartiere, un vero e proprio “baluardo antispaccio”. Sulle giostre di Via Quaglia non solo sono cresciute intere generazioni, ma il parco è stato, ed è ancora, un punto di riferimento e di aggregazione per grandi e piccini, una vera e propria oasi felice.
Il quartiere e il contesto
La zona e il quartiere prendono il nome da una torre, nel medioevo di proprietà di Pietro Monaca, documentata per la prima volta nel 1317 che, nel Cinquecento, risulta di proprietà della chiesa di Santa Maria Maggiore, modificando il nome in “Torre Pala monacha” prima e “Torre Bella Monica” successivamente.
La potente famiglia Borghese nel 1869 divenne proprietaria della torre e della vasta tenuta sulla quale insisteva, acquisita nel 1923 dal conte Romolo Vaselli.
Tra il 1920 e il 1930 vasti settori del centro storico di Roma subirono sventramenti e numerosi abitanti si trasferirono in questa zona, ai cui si aggiunsero immigrati provenienti dal sud Italia e dalla provincia. Nacque così una borgata dichiarata nel 1962 Zona di espansione nel Piano Regolatore.
Tra il 1981 e il 1983 si attuarono i piani di edilizia economica e popolare, con la costruzione delle caratteristiche torri che sviluppano quindici piani. Oggi Tor Bella Monaca è il quartiere con la maggiore incidenza di patrimonio pubblico, oltre l’80 per cento del totale sono case popolari. Nel quartiere vivono 28.000 persone, ma la carenza di luoghi di aggregazione sociale e la mancanza di sicurezza hanno avviato un forte disagio sociale, che Irene Carnevale “descrive” nelle sue riprese fotografiche per non disperdere l’eccezionale patrimonio umano e culturale che gli abitanti del quartiere rappresentano.
Da qualche tempo porta avanti questa ricerca dove vengono immortalate architetture e baracche, luoghi di aggregazione come il luna park e la scuola, personaggi incontrati nelle loro case o nelle strade. L’assoluta padronanza della tecnica fotografica in connubio con la ricerca intimistica hanno creato immagini che segnano l’anima dell’osservatore riportando alla memoria l’atmosfera sognante e introspettiva dell’artista.
Al di là della fotografia
Le narrazioni fotografiche di Irene Carnevale sono preziose cornici che perimetrano vite semplici ma eroiche, come quella di Maria che abita al quattordicesimo piano del grattacielo dove stende la tuta del marito meccanico che solo ieri era sporca di grasso; come quella di Alì che la notte fa il garagista per mantenersi agli studi di Architettura; come quella di Irina venuta dall’Ucraina per fare la badante ad una coppia di vecchietti novantenni afflitti dal morbo di Alzheimer. Storie vere raccontate all’interno di un quartiere lacerato dall’indigenza, dallo spaccio di droga, dalla malavita.
La fotoreporter con i suoi significativi e tecnicamente perfetti scatti va tuttavia al di là dell’opera d’arte fotografica, stimolando tutti noi ad una riflessione, con l’ambizione riposta di cambiare qualcosa nelle sfortunate comunità emarginate. Per questo ritengo si possa paragonare al Gabbiano Jonathan Livingston nel libro di Richard Bach, capace cioè di ubbidire soltanto alla propria legge interiore e sensibilità per compiere piccole grandi azioni a beneficio di quelle persone che sono cadute sul grande palcoscenico della Vita.